Si sente parlare spesso di Licenziamento per giusta causa, ovvero quel provvedimento che permette al datore di lavoro di licenziare un proprio dipendente perché il suo comportamento non consente la prosecuzione ottimale del rapporto lavorativo. Ma di cosa si tratta e quando è davvero… giusta causa?
Cosa s’intende per Giusta Causa è un Aspetto Legale dettagliato nell’art. 2119 del Codice Civile, che regola questo provvedimento. In primo luogo, nel contratto a tempo indeterminato stipulato deve essere presente una clausola per cui entrambe le parti (datore di lavoro e dipendente) possano interrompere il rapporto lavorativo senza preavviso, in seguito a delle valide motivazioni che rendono impossibile proseguire lo stesso. Altrettanto importante è che per Giusta Causa non s’intende solo un impedimento pratico al portare a termine il lavoro per cui si è assunti, tramite inadempienze contrattuali, ma anche: “l’insieme di atteggiamenti, comportamenti e circostanze, che fanno cessare la fiducia riposta da parte del datore di lavoro nei confronti del suo dipendente”. In pratica finiscono per rientrarci tutti i comportamento che minano la fiducia tra datore di lavoro e dipendente. Il datore di lavoro è però tenuto a mostrare prove davanti al giudice se decide di ricorrere a un simile provvedimento legale.
All’atto pratico, ecco quali sono i motivi che il dipendente dovrebbe evitare e il datore di lavoro dovrebbe portare come prove della Giusta Causa:
– l’insubordinazione nei confronti del capo e il rifiuto, senza dare spiegazioni, di svolgere i propri incarichi;
– la sottrazione di beni durante lo svolgimento delle proprie attività;
– il non riprendere il lavoro quando, dopo aver chiesto un permesso per malattia, la visita medica dichiara il buono stato di salute;
– comportamenti penalmente rilevanti, anche al di fuori del lavoro;
– svolgere attività lavorative per conto terzi durante un permesso per malattia che pregiudica la guarigione;
– comportamenti violenti versi gli altri lavoratori;
– assenze sistematiche o poco veritiere;
– risse nei luoghi di lavoro;
– violazione del patto di non concorrenza;
– scorretto uso dei permessi per ex legge 104/92
– falsa timbratura del cartellino;
– abbandono ingiustificato del posto di lavoro.
Se il giudice stabilirò che le motivazioni non sono sufficienti, al lavoratore aspetta il reintegro e un indennizzo fino a 12 mensilità, se il reintegro non fosse possibile, l’indennizzo sarebbe pari a un somma tra le 12 e le 24 mensilità spettanti.
Ci sono però delle differenze importanti avvenuti in seguito all’approvazione del Jobs Act del 2015, che riguardano i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Per i lavoratori assunti prima di questa data, ecco quali sono le tutele vigenti:
– se il licenziamento per giusta causa viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), si applicano i regimi di tutela previsti da tale norma, così come modificata dalla riforma del mercato del lavoro del 2012, regimi che, in due specifiche ipotesi (insussistenza del fatto contestato o licenziamento intimato per un fatto che rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa), contemplano la possibilità che il datore di lavoro sia condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
– al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico.
Per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, le tutele sono un po’ diminuite e i casi in cui si può essere reintegrati al lavoro sono minori, e solo se sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.