L’errata convinzione che nel caso di lavoro non dichiarato (o nero) siano solo i datori di lavoro a rischiare è un malinteso che può portare a gravi conseguenze. Esistono circostanze in cui anche il cosiddetto “dipendente” è passibile di sanzioni più o meno severe, a seconda delle circostanze.
In particolare, la legislazione punisce i lavoratori assunti senza un contratto regolare che sfruttano tale situazione per trarne vantaggio, approfittando dei sostegni economici erogati dallo Stato a coloro in situazioni di necessità finanziaria.
Contrariamente alla credenza comune, il lavoratore in nero non è esente da rischi, sebbene non goda delle protezioni che sarebbero garantite con un contratto di lavoro regolare. Questi rischi emergono quando il lavoratore decide di sfruttare la situazione per favorire se stesso a spese dello Stato.
Le recenti modifiche alle sanzioni per il lavoro nero, con l’entrata in vigore del Reddito di cittadinanza e successivamente dell’Assegno di inclusione dal 2024, hanno introdotto nuove dinamiche. Poiché entrambe le misure mirano a sostenere il reddito delle famiglie, il lavoratore in nero potrebbe cercare di accedervi indebitamente, mettendosi a rischio.
Secondo il decreto n. 4 del 2019, convertito in legge n. 26 del 2019, che disciplina il funzionamento del Reddito di cittadinanza, coloro che rendono o utilizzano dichiarazioni o documenti falsi per ottenere il beneficio indebitamente sono passibili di reclusione da 2 a 6 anni. Pertanto, mentire sul proprio stato occupazionale per ottenere indebitamente il Reddito di cittadinanza può comportare gravi conseguenze, incluso il rischio di reclusione e l’obbligo di restituire l’importo indebitamente percepito dopo una condanna definitiva.
La sanzione è leggermente meno severa per coloro che iniziano a lavorare in nero dopo aver ottenuto il diritto al Reddito di cittadinanza. Nel caso in cui non venga comunicata una variazione di reddito che avrebbe comportato una riduzione o la perdita del beneficio, il lavoratore è passibile di reclusione da 1 a 3 anni, come stabilito nello stesso decreto.
Con l’avvicinarsi del passaggio dal Reddito di cittadinanza al Supporto formazione lavoro (già operativo da settembre) e all’Assegno di inclusione (dal gennaio 2024), le sanzioni per chi lavora in nero e omette informazioni rilevanti restano in vigore.
Il decreto n. 48 del 4 maggio 2023 mantiene le stesse sanzioni previste per il Rdc: reclusione da 2 a 6 anni per coloro che accedono al sostegno “nascondendo” i redditi effettivamente percepiti e da 1 a 3 anni per chi non comunica successivamente informazioni rilevanti che potrebbero comportare la perdita o la riduzione del beneficio.
Oltre alla normativa relativa al Reddito di cittadinanza e all’Assegno di inclusione, ci sono altre leggi che disciplinano le sanzioni per il lavoro in nero. Il lavoratore irregolare che presenta dichiarazioni false all’Inps o al centro per l’impiego per ottenere lo status di disoccupato, anche senza percepire indennità, è passibile di reclusione fino a 2 anni, commettendo il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, come disciplinato dall’articolo 483 del Codice Penale.
È importante notare che chi lavora in nero e presenta la Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU) ai fini ISEE, ottenendo così un valore inferiore, può essere punito per il reato di falsità ideologica. La sanzione è più severa per chi, percependo l’indennità Naspi o altri ammortizzatori sociali, approfitta indebitamente del proprio status di disoccupato: in questo caso, è passibile di reclusione da 6 mesi a 4 anni, con una contestazione per indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, come previsto dall’articolo 316 del Codice Penale.
Va sottolineato che se la somma indebitamente percepita è inferiore ai 4.000 euro, verrà applicata una sola sanzione amministrativa, con un importo variabile dai 5.164 ai 25.822 euro, ma in ogni caso, l’importo non può superare di tre volte il valore della somma percepita.