Stando ai dati raccolti dal monitoraggio effettuato dalla Cgil, Flc e Rete degli Studenti Medi e realizzato dalla Fondazione Di Vittorio, viene mostrato un panorama non promettente riguardo i programmi di alternanza scuola-lavoro offerti agli studenti e incoraggiati dal ministero con la tanto discussa manovra della Buona Scuola. Questo primo studio prende in esame 250 scuole di 87 province italiane, presenti in tutto il territorio italiano, per quanto riguarda l’anno scolastico 2015/2016. Gli studenti intervistanti sono oltre 180.000.
Dei dati raccolti ne parla il coordinatore del Dipartimento Formazione e Ricerca Cgil, Fabrizio Dacrema, che fa presente come il programma abbia coinvolto oltre 500.000 studenti (visto l’obbligo imposto dal ministero), ma che l’assenza di una coo-progettazione tra scuole e mondo del lavoro abbia reso difficile sfruttare questa opportunità in maniera positiva. Si è finito per aggiungere un’altra attività a quelle ordinarie della scuola, ma non di cambiare il modo di fare scuola, che doveva essere l’obiettivo. Per questo si è tornati a chiedere al Miur di istituire una Cabina di Regia Nazionale in cui siano presenti le istituzioni coinvolte e le parti sociali, che sono quelle direttamente coinvolte e in grado di valutare la qualità dell’esperienza formativa.
Se il 70% degli studenti dichiara di aver avuto una reale alternanza lavoro-scuola, un 10% ha fatto solo attività lavorativa a scuola, non entrando in contatto con il mondo del lavoro. Rimane quindi troppo alta la percentuale di ragazzi che rischiano di fare percorsi dequalificati e spesso inutili.
Altro fattore da tenere in considerazione è la difficoltà della scuola a monitorare i lavori in alternanza sostenuti in estate (fatto dall’80% dei ragazzi, ma con solo il 17% sostenuto quando la scuola era chiusa); in questi casi non esiste nemmeno un minimo organo di controllo.
A questi si aggiunge il classico problema delle aziende con cui “i ragazzi hanno un rapporto occasionale, fuori da accordi di settore, fuori da una rete territoriale, senza stabilità della relazione: è come un incontro avvenuto al momento, per risolvere il problema”, con un basso coinvolgimento dell’impresa, che magari ha a accettato il programma per motivi fiscali o per infilare un ragazzo a fare lavoretti non certo formativi.
E se il governo parla di grandi imprese che si occupano di importanti progetti di formazione, anche qui la realtà è ben diversa con circa il 90% dei ragazzi che si sono ritrovati a lavorare in piccole medie imprese. E se è vero che queste sono ancora una forza importante dell’Italia che lavora è anche vero che spesso non hanno la capacità (né l’esperienza) di proporre programmi formativi all’altezza dei bisogni di un ragazzo. Non essendoci una figura di tutor di referenza, la scuola ha difficoltà a valutare l’operato di un’impresa.
Dacrema fa presente che “addirittura per tutto il primo anno non c’è stato nemmeno il registro nazionale delle imprese dal quale le scuole sono obbligate a individuare il soggetto ospitante: è arrivato ad anno scolastico concluso, e ad oggi risultano iscritte al registro circa 400 imprese”.
Il programma in sé pare avere buone potenzialità, ma per diventare davvero efficiente per tutti i ragazzi partecipanti, sembra occorra ancora del lavoro, magari di coordinazione maggiore tra territorio e scuola, oltre che nella presenza del Miur come motore e garante di una qualità fondamentale per questa esperienza e possibilità data ai giovani.
Tra le idee della Cgil rientrerebbero accordi di rete stabili, un’organizzazione stabile dentro la scuola, con il collegio docenti che si prenda la responsabilità. Propone anche un dialogo sociale stringente, l’attivazione della Cabina di regia, una formazione continua per i tutor, una valorizzazione anche nella contrattazione del contributo che i tutor danno, perché si ricorda che si è fatto un anno di alternanza senza la carta dei diritti e dei doveri in alternanza.